Cedere al fatalismo è una costante tentazione.
Accettare il destino, la leggerezza della resa a un disegno prefissato da qualcosa oltre la mia portata, oltre la mia comprensione, mi aiuterebbe a vivere meglio, con meno crucci, con meno rimorsi.
Ma credo che esistano solo due categorie di persone che possano permettersi di definirsi fatalisti, due categorie di persone in realtà accomunate dalla stessa caratteristica, solo di segno opposto: coloro i quali hanno vissuto una molto lunga, improbabile per quanto matematicamente possibile, serie di eventi straordinariamente fortunati o straordinariamente sfortunati.
I primi possono ben gioire della loro facile fortuna e ringraziare il fato. Che esista o meno il fato non ha importanza.
I secondi si possono almeno consolare pensando a che, se il destino ciò gli ha riservato, essi non ne hanno colpa.
Per tutti gli altri, per quelli come me che vivono le quotidiane alterne vicende, il fatalismo è solo una scusa per i propri errori, è il non voler ammettere le proprie responsabilità di fronte alle sciagurate scelte operate durante la propria vita meschina e mediocre.
Il fatalismo è una tentazione, un comodo cuscino, un vellutato drappo per celare le mie brutture.
Per questo resisterò sempre al fatalismo: perchè ho fatto troppi errori, perchè ho troppe responsabilità e troppi rimorsi e l’unico modo che ho, per mantenere un poco di dignità e una flebile speranza per il futuro, è avere sempre ben presenti le mie colpe in ciò che mi sono costruito attorno.
Solo chi ha ricevuto tanto senza sforzo si può permettere di sbagliare senza timore di rovinarsi.
E chi non ha ricevuto nulla, nonostante sforzi e meriti, non ha nulla da perdere a sfidare ancora la sorte.
Io sono nella salmastra mediocrità umana, posso solo evitare di ripetere i miei errori.